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In un’intervista all’agenzia Dire, la coordinatrice per l’area psicologica dell’associazione per la Regione Lazio, la psicologa Chiara Illiano, ha acceso i riflettori su questa sindrome che colpisce silenziosamente molti giovani nel nostro Paese ed è caratterizzata da una forma estrema di ritiro sociale, rifiuto di contatti da uno a quattro anni e, in alcuni casi, rifiuto di andare a scuola, dipendenza da Internet e inversione del ritmo sonno-veglia

“Con Hikikomori intendiamo una condizione che riguarda soprattutto adolescenti e giovani adulti e che è caratterizzata da una forma estrema di ritiro sociale: le persone si chiudono nella propria stanza e rifiutano qualsiasi forma di contatto con il mondo esterno anche per lunghi periodi di tempo, interrompendo volontariamente i rapporti con gli altri e mettendo fine a qualsiasi forma di comunicazione, anche quella con i propri familiari”. Questa la definizione di “Hikikomori” – in giapponese significa “stare in disparte” – che fornisce l’Istituto superiore di sanità nel suo glossario dedicato alla salute e che specifica che per essere definita in questo modo una persona “deve manifestare uno stato di completo ritiro sociale che persista per almeno sei mesi e abbia un esordio anteriore ai 30 anni di età“. In media, il rifiuto di contatti sociali dura da uno a quattro anni e, in alcuni casi, si associa anche a rifiuto di andare a scuola, dipendenza da Internet e inversione del ritmo sonno-veglia.

Ad accendere oggi i riflettori su questa sindrome è la psicologa Chiara Illiano, coordinatrice per l’area psicologica di “Hikikomori Italia onlus” per la Regione Lazio, che, intervistata dall’agenzia di stampa Dire, ha dichiarato: “Centomila ragazzi in Italia stanno portando avanti una ribellione silenziosa contro la società che li vuole competitivi, concentrati nei propri sforzi individuali di autorealizzazione“. Secondo la psicologa, il disagio insorge tipicamente tra i 15 e i 20 anni, “gli anni in cui un individuo è sollecitato ad assumere decisioni importanti della propria vita” ma quanto rappresentato “dal termine nipponico è qualcosa di più profondo, a volte radicato nel tempo se si pensa che può riguardare anche persone adulte, ultra 60enni”.

La pandemia, e il conseguente lockdown, avevano inizialmente portato sollievo ad alcuni soggetti che già ne soffrivano perché “tutti eravamo fermi, immobili, uguali” e “venendo meno le relazioni e la pressione alla realizzazione sociale queste persone sono state apparentemente meglio”, ma con le riaperture c’è stato “un netto peggioramento”. “Abbiamo anche notato – ha spiegato Illiano –  un incremento nelle richieste di aiuto, soprattutto dall’autunno, sia da parte dei genitori che dei ragazzi, perché il ritiro dalla realtà è stato ancora più forte”.

Ancora, ha precisato la psicologa, “Hikikomori non è un disturbo psichiatrico ma un fenomeno sociale“, il problema però è che genera psicopatologia, “ci sono persone che vivono nell’armadio della propria camera“. “Noi professionisti sanitari che ce ne occupiamo – ha detto Illiano – parliamo quindi di disagio ma non di malattia, nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (il numero 4) viene citato come sindrome culturale. Nel manuale aggiornato, il 5, addirittura è scomparso, ma ci sono ricercatori, psicologi e psichiatri che vogliono che sia riconosciuto come patologia”. Infine, alcune indicazioni sul da farsi secondo l’esperta: “Riconoscere la pressione sociale può aiutare ad allentare lo stress e il disagio che molti adolescenti vivono”, e, dato che le persone colpite da Hikikomori sono ego-sintoniche e non realizzano di avere un problema, “dobbiamo lavorare sulla società, sulla forte e non sana competizione, ma anche e soprattutto sulla scuola che purtroppo mira a far emergere i talenti individuali e non il lavoro collettivo. La migliore cura, alla luce di questo, è la prevenzione”.

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